Cieli ottocenteschi (cieli mai visti)

 


È successo all’improvviso, un giorno mentre me ne stavo in giardino. Ho guardato il cielo azzurro, incredibilmente azzurro, così come è stato per gran parte del lockdown. Ho avuto la sensazione che qualcosa non tornasse: il cielo da giorni era diverso e io non me ne ero accorto. Cosa lo rendeva diverso? Un’assenza che percepivo per la prima volta nella mia vita: gli aerei non solcavano più i cieli. Non una delle loro inequivocabili sagome, non una luce lampeggiante nel cielo notturno, non una scia, non un flebile rumore. Niente. O, meglio, solo il cielo. Esattamente come io non lo avevo mai visto sopra di me. Gli aerei non volavano più. Non che non lo sapessi, ma un conto è sapere una cosa, un altro è averne la consapevolezza. Non una notizia, un’informazione, ma una realtà percepibile.

Ho iniziato a guardarlo nei momenti più diversi. Durante la notte, quando sembrava un cielo di montagna. Al mattino quando mi stendevo a terra per fare i miei esercizi per rafforzare gli addominali e lui se ne stava incastonato tra la siepe di alloro e il cipresso. Nel pomeriggio durante le passeggiate con Diego e, a volte, Luna. L’ho fotografato sentendomi anche un po’ stupido: chi è che fotografa il cielo il pieno giorno in assenza di altri oggetti? Un rettangolo azzurro, niente più. Eppure, quell’azzurro ininterrotto o solo talora punteggiato di nubi sparse era un’assoluta novità. Un giorno ho dato forma alla mia idea: si trattava di un cielo ottocentesco. Nessuna traccia di ciò che, dal primo volo dei Fratelli Wright, ha iniziato a caratterizzare i nostri cieli fino a farmi scrivere queste parole nell’estate del 2019 durante una traversata solitaria a piedi delle Alpi Apuane: “Qui il silenzio è rotto soprattutto dai voli. Quelli più rari degli uccelli, quello costante degli insetti e quello fin troppo frequente degli aerei”. All’improvviso niente più voli, niente più segni della presenza di aerei nel cielo. Un po’ come nel diciannovesimo secolo.

Non proprio la stessa cosa, visto che l’incanto del cielo notturno ha continuato a includere il movimento di punti luminosi che testimoniano la presenza di satelliti e Stazione Spaziale Internazionale. Durante il giorno, però, esattamente la stessa cosa: l’azzurro incontrastato dall’artificio umano.

Mentre scrivo la situazione non è più la stessa, ma il traffico aereo è ancora molto ridotto. Continuo ad osservarlo e mi pongo delle domande. Una abbraccia l’emergenza economica che stiamo affrontando e riguarda il destino delle compagnie aeree e dei loro lavoratori. Una la ragione di quella ripresa davvero piccola e parziale: da noi le cose sembrano andar bene, ma altrove non è così e, soprattutto, non siamo ancora pronti per muoverci come prima. La terza è in che modo potremmo (o avremmo potuto) ridurre l’impatto ambientale dei voli senza passare attraverso un momento così drammatico.

Le domande sono accompagnate da una riflessione con tanti punti interrogativo: come abbiamo potuto dimenticare il cielo ottocentesco e considerare “normale” il cielo costantemente solcato da aeromobili? Cosa è che ci consente di abituarci a cose mai viste nel milione di anni della nostra evoluzione? Quale vantaggio ci dà e che limite rappresenta? È davvero utile e sensato perdere memoria di una cosa bella come il cielo che ci offre la natura? Davvero l’economicità dei voli vale perdere per sempre quella tavolozza azzurra? E perché non me ne ero mai reso conto? Come aveva potuto ammaliarmi quello stare col naso all’insù a guardare le scatole volanti che tratteggiavano il cielo al tramonto come un gesso bianco che scorre sul nero della lavagna?

Le domande rimbombano, i commenti su Facebook mi dicono che rinunciare a quelle scie vuol dire rinunciare al progresso, al movimento sul globo terracqueo, alla modernità. Ma io mi immagino bambino seduto in un prato di montagna a scrutare l’azzurro sconfinato del cielo, quello senza imperfezioni e senza nubi rettilinee lunghe chilometri. Mi immagino lì e sento la nostalgia del cielo autentico, il suo valore e il privilegio di averlo rivisto per qualche settimana. Un privilegio sotto gli occhi attoniti dei miei figli che, per la prima volta, hanno vissuto con me lo stupore di una cosa normale e quotidiana mai vista prima, né io né loro.


[scritto tempo fa, nel tempo indefinito costruito da l'imprevisto]


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